Un'armonia mi suona nelle vene di Alda Merini


Un'armonia mi suona nelle vene,  
allora simile a Dafne  
mi trasmuto in un albero alto,  
Apollo, perché tu non mi fermi.  
Ma sono una Dafne  
accecata dal fumo della follia,  
non ho foglie nè fiori;  
eppure mentre mi trasmigro  
nasce profonda la luce  
e nella solitudine arborea  
volgo una triade di Dei




Metamorfosi: come la ninfa, anche l’autrice diviene una creatura altra; a lei, però, piacerebbe forse che il suo Apollo la fermasse, strappandola a quella diversità che a volte percepisce come un peso insostenibile. Nella lirica di Alda Merini quella compenetrazione panica con l’elemento naturale si realizza (“non ho foglie né fiori”): l’amore che perde il contatto con il reale è destinato a sfumare in una follia accecante. L’ultima parte del componimento è introdotta da un “eppure” che segna una svolta nel discorso: la metamorfosi, pur nascendo da un momento di atroce sofferenza, è capace di generare una luce profonda. L’armonia che suona nella vene della scrittrice è dunque la sua ispirazione poetica, estremo appiglio cui aggrapparsi. Persino la solitudine diventa così condizione favorevole ad un’ascesa in grado di avvicinare al divino (“nella solitudine arborea / volgo una triade di Dei”). 

In un momento personale terribilmente critico, in cui è la sua stessa stabilità a esser messa in discussione, Alda Merini si serve del mito per riaffermare un’identità fortissima, fatta, sì, di fragilità e ombre, ma anche di una rara consapevolezza e di una dignità innegabile. Se l’amore diventa incomunicabilità, se il reale non offre scampo, la poesia rappresenta il tramite per giungere all’agognata terra santa. 



Scrive Ovidio nelle Metamorfosi (I, 555-559): "Apollo l'ama, e abbraccia la pianta come se fosse il corpo della ninfa; ne bacia i rami, ma l'albero sembra ribellarsi a quei baci. Allora il dio deluso così le dice:"Poichè tu non puoi essere mia sposa, sarai almeno l'albero mio: di te sempre, o lauro, saranno ornati i miei capelli, la mia cetra, la mia faretra".

Il dio quindi proclamò a gran voce che la pianta dell'alloro sarebbe stata sacra al suo culto e segno di gloria da porsi sul capo dei vincitori. Così ancor oggi, in ricordo di Dafne, si è solito cingere il capo di coloro che compiono imprese memorabili, con una corona di alloro.