La padronanza esige solitudine


«Sappiamo o non sappiamo, amici miei, cos’è il silenzio?
Questa vita che guarda nei due sensi
ha segnato il volto dell’uomo dal di dentro.» 
(Rilke – Sonetti a orfeo.)

«La padronanza esige solitudine. Può esserci un periodo, durante i primi anni dell’apprendimento, nel quale si sta molto con gli altri, ma via via che il lavoro assume il suo vero significato, l’artista chiude la porta alla società ed entra nel santuario del suo studio, o dei suoi studi, ad ascoltarvi i comandi dell’anima e a lottare con la grande opera.
Rilke descrive questo molto bene in una lettera a Clara (moglie) del 1903:

“Ciascuno di noi deve trovare nel suo lavoro il nucleo centrale della propria vita e da lì riuscire a espandersi in ogni direzione il più possibile. E durante questo, nessun’altra persona dovrebbe guardarlo…nemmeno lui stesso.”

[…] Una delle più comuni lamentele che vengono portate nello studio dell’analista è quella della solitudine. Come se essere soli fosse o una punizione o un delitto. E abbiamo escogitato innumerevoli modi per evitare di essere soli, di stare in solitudine. […] Invece la padronanza esige solitudine. […]
Come dice James Hillman:

“Quando in sentimenti di solitudine vengono considerati archetipici, diventano necessari; non sono più segno di peccato, di terrore, di male. L’incomprensibile autonomia del sentimento può essere accettata e la solitudine può essere liberata dall’identificazione con l’isolamento letterale.”


Senza solitudine, come avrebbe potuto, Schubert, scrivere i suoi 600 Lieder, per non parlare delle sinfonie, i trio, i quartetti, le sonate e le opere? Come avrebbe potuto, Edvard Munch, dipingere 1.100 quadri e realizzare 18.000 opere grafiche? Come avrebbe potuto Picasso creare quell’enorme numero di disegni, incisioni, sculture, libri, collages e dipinti che riempiono le pareti di così tante gallerie d’arte in così tanti paesi? Come avrebbe potuto Gustav Mahler comporre dieci sinfonie mentre era direttore a tempo pieno dell’Opera di Stato di Vienna? Come avrebbe potuto Rodin creare quell’ “esercito di opere” che riempivano gli atelier di Meudon e i giardini e le stanze dell’Hotel Biron?

Se vogliamo davvero padroneggiare un po’ la materia, dobbiamo passare delle ore, dei giorni, dei mesi, soli con essa. Questa non è una “incapacità schizoide a mettersi in relazione”, non è una patologia che dobbiamo analizzare, ma un momento raro e prezioso della nostra umanità, un momento in cui la nostra vita dell’anima tocca l’anima del mondo, e possiamo prendere parte, se siamo fortunati, alla “grande natura creatrice”.
[…] Non è che l’esperienza della solitudine escluda l’esperienza della comunità, di far parte del mondo. In molti casi può perfino rafforzare l’impegno comunitario e rendere più profondo il senso di appartenenza. Ma come prerequisito della maestria, la solitudine chiede il nostro rispetto.
E non è indispensabile che l’artista viva senza compagnia. Semplicemente, la solitudine deve far parte integrante della sua vita, e se qualcuno condivide quella vita, allora la solitudine di ciascuno deve essere rispettata. Scrive Rilke:


“Credo che sia questo il compito maggiore di un legame fra due persone: che ciascuno sia a guardia della solitudine dell’altro. Perché, se è nella natura dell’indifferenza e della folla non apprezzare la solitudine, l’amore e l’amicizia ci sono proprio allo scopo di offrire continuamente la possibilità di solitudine. E sono vere condivisioni soltanto quelle che interrompono periodicamente periodi di profondo isolamento…”»


(Noel Cobb – Maestri per l’anima – Edizioni Moretti e Vitali, 1999, p.52)